Che cosa c’è di più seducente dell’intenso aroma dello zafferano, che solletica l’olfatto prima ancora del gusto? Di più intrigante della sua storia, visto che già lo si consumava a Babilonia due millenni prima di Cristo? Di più energetico del suo colore acceso, giallo con una sfumatura ocra, che dà allegria solo a vedere il piatto che lo ospita? Di più unanimemente apprezzato da tutti i palati in tutto il mondo?
Dati gli indubbi pregi, se non costasse come l'oro, probabilmente se ne userebbe molto di più. Nell’opinione comune, infatti, lo zafferano è in genere confinato in alcuni piatti fortemente connotati, come la bouillabaisse francese, la zarzuela e la paella spagnole, il riso pilaf indiano, il cous-cous arabo, la pasta con le sarde siciliana, i brodetti marchigiani e il risotto alla milanese. Eppure, il sapore vellutato, aromatico e amarognolo, lo straordinario profumo e il colore invitante sono capaci di migliorare qualunque preparazione.
Si può infatti aggiungere un pizzico di zafferano al semolino e agli gnocchi, alla salsa di pomodoro, alle carni di manzo, pollo e coniglio, ai pesci come tonno, rombo e pescespada, alle uova, ai formaggi e alle verdure (ceci, cavolfiore, patate, cardi, melanzane e asparagi). Ma non è finita: questa spezia si difende bene anche abbinata ai dolci, quali crépes e meringhe, ma soprattutto ciambelle e il saffron cake della Cornovaglia. Infine, fornisce la tipica tonalità alla Chartreuse.
Una storia lunga tre millenni
Portare in tavola un piatto allo zafferano significa anche imbandire un pezzettino di storia. Il nome comune da solo testimonia il numero di civiltà che, prima di noi contemporanei, lo hanno apprezzato: deriva infatti dal persiano zaa-fran, che ha generato l'arabo za'-farán, da cui è venuto il latino safranum. Il significato? Semplicemente, “giallo”!
Originaria della regione dell'Eufrate in Asia Minore, la spezia veniva già assaporata dai Babilonesi, che la impiegavano anche in medicina e in cosmesi come colorante, per unguenti e profumi. Viene poi citata nei papiri egiziani del II secolo a.C. per curare le malattie respiratorie in miscela con miele e bacche di ginepro. Più venali furono i Fenici, che la commerciavano in Africa del Nord e a Marsiglia come colorante per stoffe. Un utilizzo simile interessava anche la Grecia: è citata nell’Iliade come colorante per le vesti dei nobili e come profumo per guanciali e per pavimenti dei templi, ma qualcuno la impiegava anche per notti calienti...
Nel Medioevo, la coltivazione bypassò il Mediterraneo raggiungendo la Spagna, al seguito degli Arabi invasori nel 961. Proprio gli Spagnoli capirono che lo zafferano poteva essere fonte di enorme ricchezza e in tutti i modi cercarono di conservarne il monopolio della coltivazione e del commercio: chi tentava di esportarne i bulbi veniva punito con la prigione o la morte. Per dare un’idea del valore, con mezzo chilo di questa spezia si poteva acquistare un cavallo di buona razza, come dire una Rolls Royce dell'epoca!
Neanche a dirlo, furono proprio gli Italiani a beffare gli Spagnoli, interrompendone il protezionismo: il padre domenicano Domenico Santucci, membro del tribunale dell'Inquisizione sotto Filippo II e grande appassionato di agricoltura, nella seconda metà del Cinquecento studiò a lungo, di nascosto, i preziosi bulbi fino a trafugarne una manciata per coltivarli nella sua terra d’origine, l’altopiano di Navelli in Abruzzo.
La spezia in terra abruzzese si trovò così bene da regalare un prodotto che fece la fortuna delle famiglie nobili dell’Aquila: si avviarono intensi commerci con Milano e Venezia e, all’estero, con Francoforte, Marsiglia, Vienna, Norimberga e Augusta. Divenne subito fonte di cospicui redditi, tanto da sostituire la moneta corrente negli scambi: la Serenissima Repubblica di Venezia istituì addirittura i Banchi dello zafferano.
L’enorme valore del prodotto da un lato fece adottare anche in Abruzzo la politica protezionistica, dall’altro ingenerò frequenti frodi: il commerciante Jobst Findenken di Norimberga, che si recava di persona all’Aquila per comperare lo zafferano e poi strada facendo lo sofisticava con altre sostanze colorate per rivenderlo a destinazione, una volta scoperto, nel 1644, venne bruciato vivo con il prodotto che portava con sé. Allo stesso tempo furono molti anche i “ladri di bulbi”, che diffusero così la preziosa coltivazione in altre regioni italiane, come l’Umbria, la Toscana e la Sardegna.
La fortuna dello zafferano nostrano continuò ininterrotta fino alla seconda Guerra mondiale, dopodiché la mancanza di manodopera per la raccolta rese la coltivazione poco conveniente, se paragonata alle grandi quantità di prodotto importate con facilità da altri Paesi, grazie ai nuovi mezzi di trasporto veloci.
C’è voluto l’impegno di alcuni anziani agricoltori, che hanno voluto fortemente mantenere attivo il sapere contadino accumulato nei secoli, per portare alla rinascita della coltivazione italiana, attraverso la costituzione dei Consorzi di tutela (vedi oltre “Così in Italia”) e il rilascio del marchio europeo di protezione (Dop). Una nuova generazione di agricoltori vi si dedica oggi, ben conscia della superiorità del nostro prodotto rispetto a quello straniero, che permette di ottenere una remunerazione adeguata alla fatica spesa nella coltivazione e soprattutto nella delicata fase della raccolta.
Coltivazione facile ma laboriosa
Il bulbo dello zafferano è molto tollerante in fatto di clima: tollera da –10 a + 40 °C (in estate la pianta “dorme”, vedi oltre “Carta d’identità”), la neve anche durante la fioritura, la brina di novembre, perfino la pioggia invernale (purché non troppo prolungata).
Questa grande adattabilità è legata anche al tipo di terreno adatto alla coltivazione: deve essere sciolto, molto permeabile e ben drenato, senza ristagni idrici. Ideali i suoli sabbiosi, ma anche quelli calcarei o argillosi lo ospitano proficuamente; sconsigliati invece i terreni pesanti e poco permeabili o umidi.
Due sono le tecniche di coltivazione: quella annuale (400 kg di bulbi per 500 mq di terra) e quella poliennale. La prima, adottata solo in Abruzzo, Umbria e Toscana, prevede di estrarre con delicatezza dal terreno i bulbi al termine di ogni ciclo vegetativo, in luglio; ripulirli uno per uno, valutarne la grossezza e lo stato sanitario e scartare tutti quelli non idonei; rimetterli subito dopo a dimora in un appezzamento di terreno diverso dal precedente, a 10-15 cm di profondità e 7-10 cm di distanza fra loro, su file parallele lunghe circa 80 m e intercalate da vialetti di passaggio. Con questa tecnica solo la lavorazione del terreno può essere svolta con una macchina motocoltivatrice; tutti gli altri passaggi sono esclusivamente manuali, rendendola quindi molto laboriosa e onerosa in termini di manodopera e incrementando il prezzo del prodotto finale. Il vantaggio? Il controllo annuale della qualità dei bulbi, che si riflette in una migliore qualità del prodotto finale.
La tecnica poliennale è invece adottata in Sardegna e in tutti gli altri Paesi produttori di zafferano. Consiste nell’effettuare l’estrazione dei bulbi ogni determinato periodo di anni, 4 in Sardegna, 5 in Spagna, 7 in Grecia ecc. La coltivazione si svolge con le stesse modalità già descritte; unica differenza, la distanza fra i bulbi, 12-15 cm, per lasciare spazio ai nuovi bulbetti che si formeranno nel corso degli anni. La minor necessità di manodopera riduce il prezzo finale del prodotto.
Tutta a mano, che fatica!
Ma il momento decisamente più faticoso rimane quello della raccolta, quando sono necessarie molte persone disposte a lavorare in condizioni non proprio idilliache. La raccolta inizia quando i fiori incominciano a spuntare, verso la metà o fine di ottobre, e si protrae per 20-30 giorni. Chinati sul filare, si staccano i fiori interi ogni mattina prima dell’alba, in modo che i raggi solari non ne provochino l'apertura (che deteriora gli stimmi), ma dopo che la rugiada si è asciugata (generalmente tra le 6 e le 8 di mattina), e si ripongono in ceste di vimini.
Poi si aprono con delicatezza i tepali e, con le forbici, si taglia lo stilo (pistillo) appena sotto gli stimmi, che si pongono in un setaccio. La mano dell’uomo (anzi, della donna, visto che si tratta di un lavoro prevalentemente femminile, forse per la maggiore grazia…) è indispensabile, perché una macchina potrebbe rovinare le delicate strutture fiorali, compromettendo i preziosi stimmi.
Se il clima è caldo, si essiccano per 5-10 giorni all'ombra o per 3-4 giorni al sole. Se invece è già fresco, gli stimmi si tostano in forno a legna, a bassa temperatura per 10 minuti, o sul camino, con brace di legna per 15-20 minuti.
Per conservarlo e sceglierlo
Per una lunga conservazione, la spezia non deve sentire un’umidità superiore al 10%, all’interno di contenitori a chiusura ermetica da riporre al buio e al fresco: 6 mesi sono il periodo limite di conservazione, oltre il quale l’aroma si perde.
Lo zafferano è reperibile in commercio in due forme: in polvere, confezionato in bustine o in vasetti, oppure sotto forma di stimmi (filamenti) essiccati. Nel primo caso bisogna affidarsi solo a marche serie e affidabili, pena il rischio di contraffazione (vedi oltre “Frodi & c.”), senza farne grandi scorte perché la volatilizzazione dell’aroma si compie in 4 mesi; la spezia si scioglie direttamente nei liquidi di cottura.
Gli stimmi devono avere colore intenso (arancio-rosso), odore forte e sapore pungente, tutti indici di migliore qualità; prima dell’uso, per circa un’ora vanno sciolti in un po' di brodo o di acqua molto caldi, che si tingono dapprima di rosso e poi di giallo; la preparazione si aggiunge a fine cottura. Per velocizzare lo scioglimento, gli stimmi si possono prima pestare nel mortaio.
Ma quanto costa!
Per fortuna, dello zafferano se ne usa veramente un pizzico per volta: il costo dell’“oro rosso”, come viene anche definito, rimane elevato, oggi come nell'antichità, variando dai 35 ai 70 euro per grammo di prodotto italiano. Colpa, come abbiamo visto, della notevole incidenza della manodopera, ma anche della scarsità della coltura: i siti di produzione italiana tutti insieme (vedi oltre “Così in Italia”) forniscono ogni anno solo 50 kg di spezia.
Come se non bastasse, la resa di prodotto è molto bassa: un ettaro di coltivazione fornisce 5-15 kg di stimmi freschi e per ricavarne 1 kg occorrono circa 60 kg di fiori e 500 ore di lavoro, ma per ottenere 1 kg di zafferano secco occorrono ben 150mila fiori, cioè 450mila filamenti...
Sono proprio le ragioni economiche a spingere all’importazione dai Paesi mediterranei (Spagna, Grecia, Egitto, Tunisia) e asiatici (Iran, Kashmir e India), dove si adotta la coltivazione poliennale, la manodopera ha un costo irrilevante e raccolta ed essiccazione non sono particolarmente accurate: certo, il prodotto estero costa molto meno, ma la qualità non è all’altezza dello zafferano italiano.
Una sottile alchimia chimica
Perché lo zafferano è soprattutto un piacere, e per essere tale, deve essere buono, cioè ricco dei principi attivi che gli sono caratteristici e che gli conferiscono l’inconfondibile bouquet aromatico.
I “magnifici 4”, cioè gli elementi chimici che ne compongono l’olio essenziale responsabile delle specifiche qualità organolettiche, sono la crocetina, la crocina, la picrocrocina e il safranale, quattro molecole che derivano tutte da un unico precursore, il carotenoide zeaxantina. Quest’ultimo conferisce, insieme con la crocetina e con altri carotenoidi, come α e β carotene (che proteggono la vista) e licopene (antiossidante che combatte i radicali liberi), il bel colore intenso tipico della spezia. Il safranale, componente principale dell’olio essenziale, è invece il protagonista dell’odore caratteristico dello zafferano, mentre il sapore amarognolo è dovuto alla picrocrocina.
Ma le meraviglie dello zafferano non si esauriscono qui: gli stimmi contengono anche altri elementi chimici, tra cui alcaloidi, saponine, fitosteroli, zuccheri, minerali, vitamine B1e B2, e composti volatili come α e β-pinene ed eucaliptolo. La loro percentuale varia in base al terreno e alle tecniche di coltivazione, ma tutti insieme concorrono alla formazione dell’aroma tipico.
Uno zafferano di buona qualità, quindi, dovrebbe contenere circa il 30% di crocina, tra il 5 e il 15% di picrocrocina e un 2,5% di composti volatili incluso il safranale.
È buono e fa bene
Date le quantità irrisorie di consumo, lo zafferano non può far parte degli alimenti “nutraceutici”, ma la “piccola farmacia” di cui è dotato qualche effetto lo sortisce ugualmente.
Nell’antichità questa spezia era considerata una vera panacea ed era impiegata nelle più svariate situazioni: mestruazioni dolorose, mal di schiena, difficoltà digestive, asma, tosse, depressione ed eccitazione nervosa.
Senza contare la nomea di afrodisiaco per gli uomini: ma, come nel caso di molte altre spezie ed erbe, l'effetto eccitante nasce più nella mente che nel corpo, dal profumo e dal sapore intensi che stuzzicano i sensi rendendoli più ricettivi verso l'esterno. Le donne invece si avvalevano della sua spiccata capacità di attivare la motilità uterina, impiegandolo ad alte dosi per scongiurare una gravidanza indesiderata: oggi infatti se ne sconsiglia l’uso, anche in modica quantità, in gravidanza.
Fino all’inizio del secolo scorso, la spezia era immancabile negli studi dentistici, dove veniva impiegato come analgesico e sedativo in caso di problemi alle gengive e ai denti; preparazioni a base di zafferano erano anche utilizzate per frizionare le gengive dei bambini nel periodo della dentizione.
Oggi la scienza lo promuove a pieni voti: facilita la digestione grazie al cocktail di aromi naturali amaricanti, protegge contro i danni indotti dai radicali liberi e svolge un effetto benefico sul tono dell’umore in caso di malessere o di lieve depressione. Tanti buoni motivi per aggiungerne spesso un pizzico nel piatto!
Così in Italia
Sono solo 50 gli ettari coltivati a zafferano in Italia, ripartiti in sei regioni dove la coltura ha radici storiche: al primo posto la Sardegna con 32 ettari, segue l'Abruzzo (10 ha), poi la Toscana con 6 ha, l'Umbria (1 ha), l'Emilia Romagna e la Liguria (0,2 ha ciascuna). Trascurabili invece le produzioni in Calabria, Puglia e Sicilia (alle falde dell'Etna c’è Zafferana Etnea). Una decina di anni fa è stato avviato il progetto Città dello zafferano, rivolto a Comuni ed Enti locali, produttori agricoli e artigiani del cibo, commercio specializzato e ristoratori, per costruire una rete indirizzata alla valorizzazione dei territori, alla cultura legata alla produzione e all’utilizzo della spezia.
- Sardegna. Lo zafferano di Sardegna Dop si produce nei comuni di San Gavino Monreale (20 ha), Turri e Villanovafranca, tutti nella provincia del Medio Campidano, per un totale di circa 200 produttori. La raccolta avviene nei primi 15 giorni di novembre e, nello stesso periodo, si tiene ogni anno a S. Gavino la Sagra dello zafferano. Nel 2007 è stato creato il Consorzio per la tutela dello zafferano di Sardegna a denominazione di origine protetta.
- Abruzzo. Lo zafferano dell’Aquila Dop si ottiene nei comuni di Barisciano, Caporciano, Fagnano, Fontecchio, L’Aquila, Molina Aterno, Navelli, Poggio Picenze, Prata d’Ansidonia, S. Demetrio nei Vestini, S. Pio delle Camere, Tione degli Abruzzi, Villa S. Angelo. La raccolta si compie nella seconda metà di ottobre. A Navelli la Sagra dei ceci e dello zafferano si tiene nella seconda metà di agosto. Nel 2005 è nato il Consorzio per la tutela dello zafferano dell'Aquila Dop.
- Toscana. Lo zafferano di S. Gimignano Dop si produce solo nel territorio omonimo, a opera di 22 produttori. La raccolta si effettua a fine ottobre. A S. Gimignano la sagra Giallo come l’oro si tiene ogni anno tra fine ottobre-inizio novembre. Dal 2005 esiste il Comitato di tutela dello zafferano di S. Gimignano Dop.
- Umbria. Lo zafferano di Cascia viene prodotto in Valnerina e Valtopina, grazie a 25 produttori. La raccolta si svolge all’inizio di ottobre. La mostra mercato si tiene a Cascia alla fine di ottobre. Nel 2003 si è costituita l’Associazione dello zafferano di Cascia.
La carta d’identità
Lo zafferano (Crocus sativus) appartiene alla famiglia botanica delle Iridacee ed è uno stretto parente dei crochi da giardino e dell'iris. È una pianta perenne con un bulbo-tubero rotondo, del diametro di circa 5 cm, da cui nei primi giorni d'ottobre spuntano 2-3 getti avvolti da una bianca e dura cuticola protettiva, che permette al germoglio di perforare la crosta del terreno. Ogni getto contiene un mazzetto di una decina di foglie strette (5 mm) e allungate (30-35 cm), picchiettate di bianco.
Alla fine del mese, tra le foglie, spuntano i primi fiori quasi completamente sviluppati: sono formati da un perigonio di sei tepali (cioè non esistono il calice e la corolla di petali) di colore lilla violaceo. All'interno del perigonio ci sono: tre stimmi (la parte femminile) rossi, portati da un lungo stilo (nell’insieme formano il pistillo), due fili corti e gialli, detti "femminelle", che non hanno nessun potere colorante, né aromatizzante o odoroso, così come le tre corte antere (la parte maschile) gialle.
La fioritura dura circa un mese, poi l'attività vegetativa rallenta durante l'inverno, per riprendere alla fine di marzo, quando la pianta genera i nuovi bulbetti. Da maggio le foglie cominciano gradualmente a essiccarsi, a giugno i nuovi bulbi hanno accumulato il materiale di riserva necessario ed entrano in una stasi vegetativa per tutto il periodo estivo (luglio-settembre).
Frodi & c.
Il Regio decreto di legge 12-11-1936 n. 2217 stabilisce che si può vendere come zafferano solo la parte apicale dello stilo con gli stimmi, prodotta da Crocus sativus. È vietata l'adulterazione con parti diverse, come gli stili e gli stami dello stesso bulbo, o con sostanze estranee, come i fiori di cartamo (Carthamus tinctorius, zafferanone), calendola e melograno, o gli stimmi di Crocus vernus e C. speciosus (crochi spontanei).
Le frodi sono frequenti nella polvere, spesso mescolata a curcuma, spezia dell'Estremo Oriente, di uguale tinta gialla (che colora il curry), ma di sapore più grossolano e meno aromatico, in grado di rovinare i piatti europei.
La pianta può essere confusa con il colchico (Colchicum autumnale), bulbo a fioritura autunnale, velenoso, riconoscibile perché ha 6 stimmi, e con Crocus nudiflorus, un croco privo di foglie al momento della fioritura.
Nato da un amore contrastato
La mitologia greca attribuisce la nascita dello zafferano all’amore di un bellissimo giovane di nome Crocus, che viveva protetto dagli dei. Crocus però si innamorò di una dolce ninfa di nome Smilace, che era la favorita del dio Ermes. Gli dei erano contrari a tale amore e, per punirli, trasformarono Crocus nella pianta dello zafferano e Smilace in quella del tasso che, avendo habitat completamente diversi, non possono mai incontrarsi. Mosso a pietà dall’amore per la stessa donna, Ermes donò poi al povero Crocus il potere afrodisiaco.
Il risotto alla milanese
Narra una leggenda che il risotto alla milanese nacque per caso: un pittore sbadato rovesciò nella pentola dove stava cuocendo il riso un barattolo del colore giallo, che un tempo si otteneva appunto con lo zafferano.