Biossido di azoto, monossido di carbonio, benzene, anidride solforosa, piombo, ozono, PM10: l’inquinamento dell'aria è servito. Alzi la mano chi, pur senza essere un chimico, non conosce almeno uno di questi termini: soprattutto in inverno, non c’è quotidiano che non informi ogni giorno sullo “sforamento” dei tetti massimi percentuali, oltre i quali la salute pubblica è in pericolo. Sì, perché tutti questi composti chimici sono sostanze che inquinano l’atmosfera che noi respiriamo.
Il meteo non aiuta
Esse abbondano, in percentuale variabile, nelle aree urbane e industriali, ove insistono le fonti di emissione - impianti di riscaldamento, attività industriali, traffico – e si concentrano in funzione delle condizioni meteo-climatiche che possono o meno favorire la loro dispersione in atmosfera. In genere, durante l’estate gli inquinanti vengono dispersi dal vento o sollevati verso gli strati più alti a causa del forte riscaldamento del suolo. Fa eccezione l’ozono, che aumenta con il forte irraggiamento solare a partire dalle sostanze organiche volatili e dagli ossidi di azoto.
In inverno invece, soprattutto fra gennaio e febbraio, non c’è scampo: il terribile clima della Val Padana ne favorisce un inesorabile ristagno nei bassi strati dell’atmosfera. Colpa dell’inversione termica, fenomeno frequente in caso di alta pressione: anziché avere aria più calda vicino al suolo che progressivamente si raffredda salendo di quota, si crea uno strato di aria fredda e densa presso il terreno e uno di aria più calda e leggera in quota. I due strati non si rimescolano e gli inquinanti vengono trattenuti a lungo vicino al suolo, intrappolati nella cappa di aria fredda e pesante. Ben vengano allora la pioggia, che “lava” l’atmosfera, e perfino la nebbia che assorbe alcune sostanze (ma spesso le trasforma in altre, ugualmente nocive…).
Quando lo zolfo è “infernale”
Fra blocchi della circolazione, targhe alterne e incentivi per la conversione al metano del riscaldamento, il problema rimane: queste (e altre) sostanze inquinanti fanno male a noi uomini, agli animali domestici, ma anche alle piante e all’ambiente in generale.
Per esempio, le famigerate “piogge acide”: si tratta di anidride solforosa e altri gas prodotti dalla combustione del carbone e del petrolio, che si disperdono nel cielo e ricadono poi a terra sotto forma di acidi con l’acqua piovana. Le piante non ne godono: in un terzo delle regioni boschive della Germania (soprattutto nella Foresta Nera), tre alberi su quattro sono stati danneggiati. Sulle lamine fogliare delle latifoglie compaiono aree irregolari di colore rosso-marrone, mentre sugli aghi delle conifere si riscontrano alterazioni rosso-brune all’apice: l’albero più colpito è l’abete. Gli scienziati tedeschi hanno definito questo declino dei boschi Waldsterben, cioè “morte delle foreste”, ma in Italia la situazione non è migliore: sembra che sia già il 10% dei nostri boschi a mostrare danni.
Ma l’azione dell’anidride solforosa non si ferma qui: brevi esposizioni ad alte concentrazioni tossiche portano necrosi sulle foglie, le quali scoloriscono assumendo una colorazione avorio-marrone e si seccano; lunghe esposizioni a più basse dosi determinano un graduale ingiallimento fogliare, dovuto a un rallentamento della formazione della clorofilla. La tolleranza all’anidride solforosa diminuisce in presenza di umidità relativa elevata, acqua sulle foglie, alte temperature, intensa luminosità e anzianità della pianta. Non tutti i vegetali comunque reagiscono allo stesso modo: sono considerati più sensibili il pero, il melo, i sorbi e il Pinus ponderosa.
Alla larga dall’azoto
Quanto agli ossidi nitrici, secondo gli studi di laboratorio il monossido provoca un’immediata diminuzione della velocità di fotosintesi, mentre il biossido determina uno scolorimento delle foglie, la loro caduta e in alcuni casi la diminuzione della produttività. In sostanza, danni non eccessivi…
Tuttavia, nelle aree a nord di Malpensa, interessate dai decolli aerei, il patrimonio boschivo sta vistosamente deperendo: alcune specie autoctone, come la quercia, registrano morie al di fuori dei normali valori fisiologici, e il danno fogliare rilevato interessa quasi il 30% dei boschi. Per non parlare dei parassiti patogeni che, in condizioni di indebolimento generale dei vegetali, trovano situazioni ideali per il loro sviluppo.
Recentissimamente poi, si è appurato che l’ossido di azoto ritarda la fioritura delle piante che vivono in luoghi molto inquinati. Di per sé, vuol dir poco, ma provate a pensare a un melo che ritardasse la fioritura fino a incappare in una botta di caldo anticipato da 30 °C: ben pochi fiori potrebbero poi allegare per trasformarsi in frutto…
Non sono da meno gli altri inquinanti: il particolato si deposita su rami e foglie sotto forma di incrostazioni che interferiscono con il processo di fotosintesi. L’etilene, un idrocarburo volatile, rallenta la crescita vegetale interferendo con gli ormoni che ne regolano il metabolismo. Piena assoluzione solo per l’ossido di carbonio: perfino elevatissime concentrazioni, come 100 parti per milione (p.p.m.), scivolano via senza nuocere minimamente ai vegetali.
Ozono: più temibile in campagna
Il ben noto ozono regala macchie bianche o puntini sulla superficie delle foglie, tanto più intense quanto più le lamine sono ampie e distese; inoltre determina clorosi, necrosi fogliare e ridotto accrescimento. Ma non basta: le bruciature riscontrate all’estremità dei germogli dell’abete bianco rimasero incomprensibili per molti anni, anche per esperti forestali e patologi, finché si scoprì che un eccesso di ozono è in relazione con questa malattia.
Sicuramente si tratta di conifere spontanee, perché gli alberi cittadini vengono graziati dall’ozono al punto da crescere di più: secondo uno studio condotto da scienziati statunitensi, la biomassa doppia dei pioppi (Populus deltoides) cresciuti nei giardini e nei parchi di New York rispetto a quelli nati in campagna a Long Island e nella valle dell’Hudson sarebbe dovuta alla minor quantità di ozono presente in città. Pur essendovi prodotto, questo gas tende infatti ad allontanarsene, in inverno e durante le notti estive, allentando così la presa sui poveri alberi urbani.
Licheni, le centraline viventi di rilevamento
Fin qui i danni relativi agli alberi, alcuni dei quali si rivelano i più sensibili in assoluto. Ma c’è una categoria di vegetali, minuscoli, che ancor più risente delle concentrazioni atmosferiche di inquinanti, al punto da venire utilizzata come bioindicatrice: si tratta dei licheni, abbondanti e a volte spettacolari nei boschi alpini e appenninici. In città, ne avete mai visti? Se abitate a Milano, Bologna, Roma o Napoli sicuramente la risposta è no. Per forza: questi strani organismi sopravvivono solo in nuclei urbani non inquinati e dunque sono utilizzati come indicatori permanenti del grado di inquinamento.
Simbiosi fra un’alga e un fungo in perfetto equilibrio, i licheni dipendono quasi esclusivamente dall’atmosfera per il proprio nutrimento (possono crescere anche su rocce) e, a differenza delle piante superiori, non hanno meccanismi di difesa come cuticola o stomi per proteggersi da eventuali sostanze tossiche. Agiscono infatti come spugne, assorbendo dall’aria, insieme all’umidità, anche tutte le sostanze presenti, comprese le particelle di polvere. Non se ne possono però disfare perché non possiedono foglie caduche da utilizzare come “pattumiera” da eliminare, né sono dotati di meccanismi di escrezione.
Fungono anche da bioaccumulatori di sostanze tossiche: l’analisi chimica dei loro tessuti fornisce molte indicazioni su ciò che c’è (o c’era) nell’aria. Le sostanze estranee (dai metalli pesanti alle piogge acide), non potendo essere restituite al mittente, portano nel tempo il lichene alla morte: quando questi vegetali sono abbondanti, si può parlare di un ambiente atmosfericamente sano. Viceversa, avvicinandosi ad aree più inquinate (come i centri urbani), i licheni divengono più rari e crescono sempre più lentamente, fino ad arrivare, nelle zone ad alto inquinamento, al cosiddetto “deserto lichenico”.
La risposta dei licheni all’ambiente è molto attendibile, tanto che in Svizzera attraverso il monitoraggio della loro presenza e crescita si è messo a punto un “Indice di Purezza dell’Aria” (IAP) che consente stime molto precise dell’inquinamento atmosferico.
Le piante ci danno una mano…
Possibile che la situazione sia così desolante? Bella non è, ma proprio le piante ci possono dare una mano a superare le fasi critiche, in attesa che venga presa qualche decisione strutturale a monte della produzione di inquinanti. Piantando nuovi alberi ci si può difendere dall’inquinamento atmosferico, oltre che da quello acustico e dal caldo eccessivo (una buona copertura vegetale protegge il suolo dall’eccessivo riscaldamento e limita l’evaporazione e quindi l’umidità dell’aria).
Le piante infatti agiscono come filtri purificatori dell’aria intercettando i contaminanti gassosi e il particolato trasportati dal vento. In specifico, il monossido di carbonio, gli ossidi d’azoto, l’anidride solforosa e l’ozono sono assorbiti dalle foglie, mentre le PM 10 sono trattenute dai peli e dalle cere presenti sulla superficie fogliare o dalle rugosità della corteccia del tronco e dei rami. E viene tolta di mezzo anche buona parte dell’anidride carbonica (la CO2 è indispensabile all’esecuzione della fotosintesi clorofilliana), per noi tossica a livelli elevati e responsabile dell’effetto serra, cioè del riscaldamento globale del Pianeta.
I contaminanti gassosi ritornano nell’atmosfera dopo essere stati neutralizzati dalle piante; mentre le particelle un po’ vengono distrutte dall’ozono emesso dalle parti verdi, un po’ vengono ridisperse nell’ambiente pian piano a opera del vento e della pioggia, tornando – ahinoi – in circolo. Il meccanismo poi non funziona in inverno, quando le foglie mancano, proiprio in coincidenza con la maggiore emissione di inquinanti…
Meglio poco che nulla: nonostante questi limiti, è stato accertato che ogni anno gli alberi di Chicago tolgono dall’atmosfera 15 tonnellate di monossido di carbonio, 84 t di biossido d’azoto, 191 t di ozono e più di 200 t di PM 10 e PM 2,5. La capacità di rimuovere gli inquinanti atmosferici, oltre ad andare di pari passo con l’aumento dello smog (fino a un certo limite), dipende da forma, numero e densità delle foglie, dalla chioma e dalla grossezza, e dalla posizione delle piante: il verde che si trova lungo i viali urbani può abbattere il 60% dell’inquinamento delle automobili che li percorrono. Naturalmente l’azione purificatrice cessa proprio quando l’accumulo di queste sostanze mette in pericolo la salute della pianta, ormai segnata.
… ma quelle sbagliate peggiorano la situazione
La scelta dev’essere comunque oculata, sia perché non tutte le specie sono in grado di resistere e depurare l’atmosfera urbana, sia perché le sostanze aromatiche (VOC biologici), emesse da alcune specie come querce, eucalipti, pioppi e salici, causano la formazione di ozono, in presenza di biossido d’azoto, a temperature di 30 °C.
Infatti i BVOC emessi spontaneamente dalle piante si combinano con le analoghe sostanze prodotte dai veicoli, scatenando reazioni chimiche che alzano i livelli di particolato e di ozono. Già i ricercatori dell’Università di Berkeley ipotizzavano che il 50% delle reazioni chimiche producenti l’ozono dipendesse dalle sostanze generate dagli alberi: ebbene, i composti volatili organici naturali sono maggiori di quelli immessi dall’uomo con le sue attività, in quantità dipendenti dalla temperatura, dall’insolazione e dal tipo di piante.
Prima di lanciare la croce addosso agli alberi (sollevando magari l’uomo dalle sue responsabilità…), gli stessi ricercatori ammettono che servono ulteriori ricerche: bisogna inventariare le sorgenti d’inquinamento intorno alle città per stabilire se si tratti di emissioni naturali o umane, e bisogna appurare quanto dell’inquinamento attualmente presente nel bacino del Mediterraneo sia autoprodotto o piuttosto proveniente dagli Stati Uniti o dall’Asia.
Intanto, poiché il tipo e la quantità delle sostanze volatili emesse dalle piante dipende dalle specie, è importante un’attenta scelta delle piante nei progetti di pianificazione del verde urbano. Meglio privilegiare alcuni aceri, frassini, pini e betulle: è stato accertato che queste piante hanno un’ampia superficie fogliare, possono arginare l’inquinamento fungendo da filtro per polveri e gas, ma rilasciano nell’aria una quantità relativamente bassa di sostanze aromatiche volatili. Come dire: le piante non prevengono l’inquinamento, anzi, un po’ pare che lo producano, ma lo possono anche controllare in modo efficace.
Quando la casa è tossica
L’aria che si respira in appartamento, in particolare d’inverno quando le finestre rimangono chiuse, è spesso più velenosa di quella delle vie cittadine. Anche perché si passa più tempo all’interno degli edifici, piuttosto che all’esterno. Inoltre il miglioramento dei sistemi di isolamento termico, utili al risparmio energetico, tende a rendere a tenuta stagna le abitazioni.
Le alternative all’“indoor smog” sono tre: accertarsi che sia l’edificio sia l’arredamento rispettino i criteri della bioarchitettura (materiali naturali, eco-compatibili), arieggiare più volte al giorno per lungo tempo i locali (anche in inverno…), circondarsi di piante.
Con la fotosintesi clorofilliana, esse assorbono anidride carbonica e immettono ossigeno nell’aria. In più, traspirano emettendo vapore acqueo: questo processo genera un piccolo moto di convezione nell’aria presente intorno a esse. È un fenomeno importante nella giungla tropicale, dove altrimenti l’aria sarebbe immobile: qui vivono specie che eseguono una fotosintesi accelerata, per ovviare alla scarsità di luce.
Poiché nelle nostre case entrano proprio queste specie tropicali, se ne ricava un “effetto bonifica” notevole. La convezione facilita il movimento e la rimozione delle sostanze tossiche da parte delle piante, assorbendole attraverso le foglie e spostandole verso il substrato, dove i batteri del terreno provvedono a demolirle e trasformarle in composti utili al loro nutrimento e a quello delle piante.
Così, sostanze per noi nocive risultano importanti per i microbi, selezionati dalla Natura in funzione degli elementi nutritivi disponibili: nel terriccio dei vasi esiste un sistema microbiologico equilibrato, che elimina le sostanze nocive in quell’ambiente domestico. Le piante cominciano a depurare un ambiente nell’arco di una giornata, aumentando l’azione con il passare del tempo.
Ciliegina sulla torta, le piante emettono anche sostanze utili, antiparassitari naturali, preposti a mantenere la loro salute. Con un piacevole risvolto: nelle stanze con presenza di piante, si è constatato un abbattimento di oltre il 50% della quantità totale di spore e batteri, rispetto ai medesimi ambienti privi di piante.
Chi assorbe che cosa
- Benzene: camadorea, dracene, Euphorbia pulcherrima (stella di Natale).
- Formaldeide: aglaonema, calatea, camadorea, Codiaeum, diffembachia, dracene, felce, Ficus benjamina e robusta, gerbera, maranta, Nephrolepis (felce di Boston), singonio.
- Radiazioni elettromagnetiche: Cereus peruvianus, Kalanchoe blossfeldiana, sansevieria, Schlumbergera e Rhipsalis (cactus di Natale), tillandsia.
- Solventi chimici: gigli, Rhapis excelsa (rafia).
- Tricloroetilene: Aechmea, Aloe barbadensis, camadorea, cissus, dracene.
- Tutto: anturio, clorofito, filodendri, potos, spatifillo.
- Xilene, toluene: Chrysalidocarpus lutescens (areca), Dendrobium, diffembachia, Phalaenopsis.
Una giungla anche in camera da letto
Xilene, toluene, benzene, formaldeide, ammoniaca: sono questi i più comuni inquinanti presenti nelle nostre case e negli uffici, gas tossici di cui praticamente non avvertiamo la presenza se non quando la loro concentrazione supera la soglia della nostra sensibilità olfattiva. Li emanano oggetti d’uso comune, come i fazzoletti di carta e i fornelli da cucina, i mobili con rivestimenti in laminato e i pavimenti in linoleum, gli schermi di pc e tv, i fax e le stampanti, i detersivi, le vernici e i coloranti che vivacizzano il nostro mondo.
Per contenerli possiamo circondarci di piante. Un Potos assorbe 5 microgrammi di formaldeide ogni ora; un’Aglaonema 7, un Ficus benjamina 10 e una felce addirittura 20. Tutte le piante da interno resistono alle modeste quantità di inquinanti presenti negli edifici, ma alcune sono più abili di altre nell’eliminarle.
Gli studi su queste straordinarie capacità dei vegetali sono iniziati alla fine degli anni Settanta nelle navicelle spaziali americane e i dati più recenti vengono dallo Skylab Space Center John C. Stennis, dove sono proseguiti anche dopo la sospensione dei voli. Si è accertato che i vegetali sono geneticamente adattati a ricavare dall’ambiente, o meglio dai gas presenti nell’atmosfera e dal suolo, gli elementi utili alla sintesi di amidi, zuccheri, aminoacidi, proteine indispensabili alla loro crescita. Ciò che per noi è tossico, per loro è prezioso.
La scienza ha dimostrato l’infondatezza di quella diffusa opinione che ritiene le piante in vaso inadatte alla camera da letto perché di notte “rubano” ossigeno all’aria. Al contrario lo emettono arricchendo l’ambiente di un elemento che ci aiuta a respirare bene. Inoltre quasi tutte le piante da appartamento contribuiscono a umidificare l’aria in modo assai più naturale delle vaschette che sistemiamo sui termosifoni, sempre che vengano bagnate regolarmente. Un angolo verde in ogni locale contribuisce quindi a mantenerne l’aria più salubre oltre che ad appagare l’occhio.
Se la posizione è poco luminosa scegliete specie adatte, come quelle già ricordate (escluso il F. benjamina) oltre ad Areca, Kentia, Chamaedorea. È preferibile riunire più vasi, anche di piante diverse, in un unico gruppo perché in tal modo si crea un microclima che potenzia gli effetti benefici sull’ambiente e nello stesso tempo favorisce lo sviluppo dei vegetali. Per valorizzare questo spazio anche sul piano estetico sono perfette le grandi fioriere di ottone, rame, legno che possono contenere diversi esemplari, ciascuno nel proprio contenitore.
9 nemici numeri uno
- Anidride carbonica (CO2): prodotta attraverso la combustione per produrre energia e per il riscaldamento domestico. Fa aumentare la temperatura della superficie terrestre.
- Ossido di carbonio (CO): proviene dalle industrie, dalle macchine e dalle sigarette. Inalato può essere mortale. Max 24h: 10 µg/mc.
- Anidride solforosa (SO2): da riscaldamento, centrali elettriche, fabbriche, automobili. È un costituente delle piogge acide. Provoca lesioni a carico dell’apparato respiratorio. Max 24h: 125 µg/mc.
- Ossidi di azoto (NOx): prodotti da aerei, forni, industrie, inceneritori, fertilizzanti. Formano lo smog fotochimico; provocano bronchiti a neonati e anziani. Max orario NO2: 260 µg/mc.
- Particolato (particelle solide: PM 2.5 e PM 10): prodotto da industrie, costruzioni, motori diesel. In genere ingloba metalli pesanti (nocivi a lungo termine). Causa disturbi all’apparato respiratorio. Max 24h PM 10: 50 µg/mc.
- Idrocarburi (COV o VOC): composti organici volatili, irritanti o cancerogeni, derivanti dalla combustione del benzene.
- Benzene (C6H6): nella benzina verde, si disperde durante i rifornimenti. Ha potere cancerogeno. Max: 5 µg/mc.
- Ozono (O3): prodotto per effetto delle radiazioni solari in presenza di inquinanti primari. È più abbondante nelle zone periferiche della città e nei parchi periurbani. Irrita gli occhi e le prime vie respiratorie. Max orario: 180 µg/mc.
- Piombo: prodotto dalle industrie chimiche e, in passato, dalla benzina rossa. Ancora elevatissimo lungo le autostrade. Attacca gli enzimi e altera il metabolismo cellulare.
Questi alberi sì
Frassino, ontano, acero, larice, betulla, pini, lauroceraso, pioppi, querce, salici.
Questi alberi no
Melo, lauroceraso, olmo, sambuco, ontano grigio, biancospino, nocciolo, agrifoglio, frassino, ciliegio selvatico.