L'aspetto austero del carciofo ha fatto sì che questo ortaggio sia diventato l'emblema della difesa di se stessi contro l'ambiente esterno, oltre che il simbolo della severità e dell'austerità, fino a ispirare la famosa Ode al carciofo del grande poeta Pablo Neruda (vedi in fondo). Gli antichi però non si fecero ingannare dalle foglie spinose e ne scoprirono già 2000 anni fa il cuore tenero e dolce: culle della coltivazione furono la Sicilia e l'Etruria, dove si sperimentò già allora anche una varietà senza spine.
Periodo oscuro fu invece il Medioevo, quando la sua consacrazione a Venere, dea dell'amore, destò il sospetto di effetti afrodisiaci, peraltro inesistenti. Ci volle tutta la personalità di Caterina de' Medici per ottenerne la riabilitazione e il ritorno trionfale in cucina: ghiotta dei delicati cuori consumati crudi, li impose alla corte di Francia quando andò sposa a Enrico II e l’uso si radicò al punto che anche il Re Sole, Luigi XIV, pretese di averli sempre freschi sulla sua tavola.
In Europa si diffuse rapidamente: dalla Francia passò al Belgio, di qui all’Olanda e poi alla Gran Bretagna, dove fu introdotto dagli Olandesi durante il regno di Enrico VIII; sul finire del ’600, l'isola di Jersey divenne famosa proprio per i suoi carciofi concimati con le alghe. Infine, nel XVIII secolo questi ortaggi conquistarono il Nord America, al seguito di Spagnoli e Francesi, tanto che oggi, in California, le primitive forme semi-selvatiche si sono riprodotte al punto da essere considerate piante infestanti, da sterminare a colpi di diserbanti.
Solo bocci, mai i fiori
Derivato dal cardo selvatico, il carciofo coltivato (Cynara cardunculus var. scolymus) è stato selezionato per sviluppare un involucro fiorale molto grande, quasi del tutto commestibile. Non tutti sanno, infatti, che l’ortaggio è in realtà il fiore colto prima di sbocciare: si consumano le brattee carnose di colore verde o violetto, spinate o inermi (le cosiddette "foglie", che botanicamente sono proprio foglie modificate) che costituiscono l'involucro fiorale, e il ricettacolo (il "fondo"); la parte stopposa (“fieno” o “barba”) – che ogni tanto sfortunatamente si trova – è costituita dai petali, che in seguito diverrebbero azzurro-violetti, in fase di formazione, a indicare che l'ortaggio è troppo maturo.
I capolini fiorali sono portati al termine di ogni ramificazione del fusto, che può raggiungere i 100-120 cm d'altezza ed è circondato da foglie grandi, lobate, a volte spinulose. Se si aprissero, i fiori somiglierebbero vagamente a quelli delle margherite: la specie appartiene infatti alla stessa famiglia botanica, quella delle Composite.
La pianta si trova bene in climi miti, asciutti, con temperature di 13-22 °C, su terreni friabili o leggermente salmastri (ecco perché spesso si coltiva vicino alle coste): il Sud Italia offre in tal senso le condizioni più adatte. Le carciofaie hanno una durata biennale o poliennale (fino a una decina d’anni), se le piante vengono concimate adeguatamente alla ripresa primaverile, mentre l’irrigazione è necessaria solo al momento della piantagione.
Gli impianti si fanno in genere per via vegetativa tramite carducci o ovoli, cioè gemme poste nella parte sotterranea del fusto, già sviluppate nei primi, ancora dormienti nei secondi, che vanno staccate e ripiantate per ottenere una nuova carciofaia, produttiva dopo un paio d’anni circa. Questa pratica va comunque effettuata solo a partire da piante perfettamente sane, per evitare la trasmissione di malattie al nuovo impianto.
A ogni regione la sua varietà
Patria del carciofo coltivato, l’Italia offre un’invidiabile quantità di cultivar, che differiscono tra di loro per la forma dei capolini, la spinosità, il colore delle brattee e l'epoca di raccolta. Ed è proprio quest’ultima a ispirare una breve quanto sommaria classificazione: si parte con il Catanese, pronto già da ottobre, caratterizzato da capolini cilindrici, di media pezzatura, con brattee inermi, sfumate di viola su fondo verde. Stesso periodo di raccolta e tipologia uguale al Catanese, ma diversi areali di diffusione, per il Violetto di Sicilia, il Violetto di Brindisi e il Locale di Mola.
Seguono a ruota le varietà spinose, commestibili da novembre in poi, come lo Spinoso Sardo, lo Spinoso Ligure e il Violetto Spinoso di Palermo: sono tutti dotati di capolini compatti, di media pezzatura e di colore verde-violetto, sormontati da spine robuste. Identico periodo di produzione per il Violetto di Provenza, classica cultivar rifiorente diffusa in Liguria, che però ha capolini medio-piccoli, abbastanza compatti e di colore viola.
Superato l’inverno, si affacciano sul mercato da febbraio a maggio le coltivazioni tirreniche: il carciofo Romanesco, varietà di pregiato valore commerciale da cui derivano diverse cultivar locali, è caratterizzato da capolini sferici, grossi e di colore viola su fondo verde, e da brattee inermi; il Violetto di Toscana, particolarmente apprezzato in Maremma e nel Fiorentino ma coltivato anche nelle Marche e in Emilia-Romagna, presenta capolini ellittici, di media pezzatura e lievemente spinosi.
Italia al primo posto
Nonostante l’ampia diffusione a livello mondiale (nel 2005, secondo i dati Fao, erano 122mila gli ettari a carciofaia, per una produzione di 1,2 milioni di tonnellate), è proprio l’Italia il maggior produttore nel mondo, con oltre 470mila t su più di 50mila ettari coltivati, equivalenti al 40% del prodotto mondiale. Seguono la Spagna con 188mila t e la Francia con 52mila t; nel mondo invece si piazza al primo posto l’Argentina con 88mila t, tallonata dall’Egitto con 70mila t e dalla California con 60mila t: in questo Stato, nella cittadina di Castroville, ogni anno si tiene l’Artichoke Festival, all’interno del quale si elegge l’Artichoke Queen (Regina del carciofo), che vide come prima, illustre vincitrice, nel 1949, un’esordiente Marilyn Monroe. In graduatoria meritano una citazione anche i Paesi emergenti, come il Cile, il Brasile e soprattutto la Cina che, toccata quota 55mila t (+700% in 15 anni), non ha certo intenzione di fermarsi.
Per il momento però sembra non siano ancora arrivati sulle nostre tavole i carciofi cinesi: l’Italia infatti importa ogni anno circa 10mila t di carciofi freschi, in prevalenza dalla Spagna, esportandone anche 5mila t in Francia, Germania, Svizzera e Belgio.
Le regioni italiane più vocate alla coltivazione sono la Puglia, la Sicilia e la Sardegna, seguite da Campania e Lazio, dalle quali provengono gli unici due prodotti tutelati: il carciofo di Paestum Igp e il carciofo Romanesco Igp. Non che le altre Regioni non possiedano pari eccellenze: la Trinacria attende l’esame del ministero per il carciofo Violetto di Sicilia Igp, la Puglia ha presentato la richiesta a favore del carciofo della Daunia Igp, mentre la Sardegna aspetta il verdetto europeo sul disciplinare del carciofo Spinoso Sardo Dop.
Tre regioni d’elezione
Il carciofoè la seconda specie ortiva coltivata in Puglia, dopo il pomodoro. Le prime notizie della sua presenza risalgono al 1736 quando, nel seminario di Otranto, nel mese di aprile venivano servite pietanze a base dell’ortaggio. Se all’inizio del 1900 il carciofo era coltivato su piccole superfici e nel 1949 era presente su 958 ettari, negli ultimi 50 anni la superficie coltivata è aumentata dai 1.300 ha del 1953 ai 17mila ha circa odierni, concentrati soprattutto nella provincia di Foggia (56% del totale), pari a 87mila t (rispetto alle 155mila t dell’intera regione), a cui seguono Brindisi e Bari. Nel novembre 2014, in occasione della Fiera nazionale del carciofo di S. Ferdinando di Puglia (Ba),è stato dato avvio alla procedura di riconoscimento del marchio Igp per il carciofo della Daunia.
La coltivazione del carciofo in Sicilia ha una storia che risale a un paio di millenni, tanto che gli arabi, tra il IX e il X secolo, coniarono l'attuale nome di harshuf. Alla fine dell'800 il Violetto di Siciliae il Catanese, coltivati nella fascia sud-orientale dell'isola, erano gli ortaggi più prestigiosi della Sicilia. Negli anni ’20 le coltivazioni si spalmavano su 2mila ettari; oggi se ne contano 14mila, per circa 1,5 miliardi di capolini (di cui 800 milioni per il fresco e 750 milioni per l'industria). Primeggia in classifica per numero di ettari (6mila, pari al 48% della produzione regionale)la provincia di Caltanissetta (che celebra l’ortaggio a Niscemi ogni anno nella seconda metà di marzo), a cui seguono Catania, con l’importante distretto di Ramacca(il Violetto Ramacchese si festeggia nella prima metà di aprile) e Palermo con il comune di Cerda(sagra del carciofo nella seconda metà di aprile).
La coltivazione del carciofo in Sardegna inizia dopo la prima guerra mondiale e raggiunge il massimo splendore negli anni ’70 con più di 20mila ha coltivati, pari al 31% della superficie nazionale: erano i tempi in cui la regione era leader produttiva in Italia. Oggi le cose sono cambiate e, dall'ultimo censimento Istat, gli ettari a carciofo nell’isola sono pari a 12mila, con 1 milione e 71 mila tonnellate di prodotto: la Sardegna è ora la terza produttrice di carciofi dopo Puglia e Sicilia. Il 62% della produzione si concentra nella provincia di Cagliari, seguita da Sassari e Oristano. La varietà più coltivata è lo Spinoso Sardocon il 57% delle superfici: dovrebbe essere imminente la concessione del marchio Dop da parte dell’Unione europea; seguono il Violetto di Provenzae il moderno Terom.
È buono e fa bene
L’inverno e l’inizio della primavera sono le stagioni migliori per consumare questa delizia dell’orto: gli esemplari migliori sono sodi, pieni, con brattee dure, lucide, ben serrate e prive di annerimenti; ancora meglio se possiedono il gambo e le foglie, che ne mantengono la freschezza.
I capolini vanno consumati subito dopo l'acquisto per evitare che le brattee diventino fibrose e che si sviluppi l’antipatico “fieno”. Digeribilissimo a crudo tagliato a fettine, in pinzimonio o in insalata, una volta cotto va mangiato entro le 24 ore, perché al suo interno si sviluppa rapidamente un fungo tossico. Dalla ligure torta Pasqualina fino al romano carciofo alla giudia, l’ortaggio ben si presta a molte preparazioni diverse: lessato, marinato, fritto, imbottito, cotto al forno o sulla griglia, in fricassea o stufato, sono centinaia le pietanze nazionali che si avvalgono del suo gusto, senza contare le conserve sott’olio, sott’aceto, in giardiniera, in salamoia o in crema o paté, per soddisfare anche i palati più raffinati.
Mentre il gusto gode della sua bontà, ci guadagna anche la salute: le preziose cinarina e cinoprina sono due principi attivi che, oltre a conferire il sapore delicatamente amarognolo, favoriscono la digestione, stimolano il fegato e la cistifellea, fluidificano la bile, depurano il sangue, abbassano il colesterolo. Ricco di mucillagini e di fibre insolubili, l’ortaggio agisce delicatamente sull’intestino con un buon effetto lassativo, mentre con le fibre solubili accelera il senso di sazietà nello stomaco, apportando pochissime calorie (22 per etto e, fra l’altro, non contiene zuccheri, tranne l’inulina, permessa ai diabetici). Come se non bastasse, rinforza l’organismo grazie al contenuto di calcio, ferro e rame. Tre sole le controindicazioni: in allattamento, perché dà il sapore amarognolo al latte; in caso di calcoli di acido urico, del quale favorisce la precipitazione; per i soggetti nefritici, perché sovraccarica i reni.
Igp in Lazio e Campania
Il carciofo Romanesco del Lazio Igp vanta una storia risalente alla fine della Seconda Guerra mondiale, quando la coltivazione si diffuse, soprattutto nell’area di Ladispoli (dove ogni anno si tiene la Sagra del carciofoRomanesco nella prima metà di aprile) e nelle zone limitrofe vocate (province di Roma, Viterbo e Latina). L’Igp comprende il carciofo Romanesco del Lazio, le cultivar Castellammare e Campagnano e i relativi cloni. L’ortaggio presenta capolini di forma sferica, compatta, con caratteristico foro all’apice, brattee esterne di colore verde con sfumature violette; il diametro delle mammole o cimaroli (i capolini all’apice del fusto principale) non è inferiore a 10 cm, mentre il diametro dei capolini di primo e secondo ordine non deve essere inferiore a 7 cm; la consistenza delle foglie interne e del cuore è molto morbida; il sapore è dolce e gradevole.
Viene immesso in commercio come Carciofo Romanesco del Lazio Igp, in confezioni sigillate ricoperte con rete di plastica oppure in mazzi avvolti con una fascia. Quando è giovane, è consigliabile mangiarlo crudo, tagliato a fettine, condito con olio, limone e qualche fogliolina di menta, o con scaglie di Parmigiano Reggiano. La cucina locale però lo predilige “alla romana”, cotto a fuoco lento e condito con pangrattato, aglio, prezzemolo, pepe e olio. In virtù delle grandi dimensioni e del poco scarto, è il carciofo ideale per essere preparato ripieno, con carne o pane.
Il carciofo di Paestum Igp, noto anche come Tondo di Paestum, fa parte del gruppo genetico dei carciofi di tipo Romanesco. L’area di produzione è concentrata nella Piana del Sele, da Battipaglia a Eboli, in provincia di Salerno, dove le prime coltivazioni specializzate sono state realizzate nelle zone adiacenti ai famosi Templi di Paestum, intorno al 1929-30, grazie alle vaste opere di bonifica. Nel 2005 la superficie a carciofo era di circa 1.400 ettari, per una produzione di circa 190mila quintali (il 70% del totale regionale).
Il prodotto si avvantaggia della precocità, che permette l’immissione sul mercato già a febbraio, in anticipo sugli altri Romaneschi. Caratteristiche tipiche sono: peduncolo inferiore a 10 cm, pezzatura media dei capolini, aspetto rotondeggiante, elevata compattezza, assenza di spine, colore verde con sfumature violetto-rosacee, ricettacolo tenero, carnoso, delicato e particolarmente gustoso. Molto apprezzato in cucina, il Tondo di Paestum viene utilizzato nella preparazione di svariate ricette tipiche e di piatti locali come la pizza con i carciofini, la crema e il pasticcio ai carciofi.
Le altre eccellenze italiane
Il carciofo di Perinaldo è dal 2008 Presidio Slow Food, descritto da Carlo Petrini come: “croccante, profumato e ricco di esaltanti sensazioni al palato; sicuramente un meritato Presidio Slow Food”. Si tratta del Violet francese introdotto, secondo la leggenda, da Napoleone Bonaparte che, durante la Campagna d'Italia del 1796, fece tappa a Perinaldo, piccolo borgo nella vallata del Crosia, nella Liguria occidentale, donando in seguito agli abitanti alcune piantine del Violetto di Provenza. Viene coltivato solo a Perinaldo (Im), tra i 400 e i 600 m sul livello del mare, spesso ai bordi dei muretti a secco, dove resiste alle temperature rigide e alla siccità e non ha bisogno di trattamenti chimici. Si raccoglie da maggio a giugno, è senza spine, tenero e privo di barba: viene consumato crudo, in insalata, oppure cotto, in accompagnamento a carni o selvaggina. Le ricette tradizionali locali lo vedono protagonista di frittatine, al forno con parmigiano e funghi, o in semplici frittelle con aglio e prezzemolo.
Il carciofo violetto di S. Erasmo è originario dell’isoletta omonima, nella laguna di Venezia. Porta capolini carnosi, teneri, allungati, poco spinosi, con il tipico colore viola cupo e dal sapore inconfondibile, che qui chiamano “Articiochi”. Sono 10 le aziende, sparse fra Burano, Cavallino e Sant’Erasmo, a coltivarlo, unite dal 2004 nel Consorzio del carciofo violetto di Sant'Erasmo (www.carciofosanterasmo.it), nato con lo scopo di promuovere e tutelare il prodotto che dal 2002 è Presidio Slow Food. La raccolta inizia ai primi di aprile con le “castraure”, cioè il capolino apicale della pianta che viene tagliato per primo in modo da permettere lo sviluppo di altri 18-20 carciofi laterali (“botoli”) altrettanto teneri e gustosi. Le castraure sono rinomate per il loro gusto unico e particolare, di inestimabile valore organolettico.
Il carciofo Violetto di Castellammare, conosciuto anche come carciofo di Schito – dal nome di una frazione di Castellammare di Stabia vocata all'orticoltura già dall’epoca romana –, è un sottotipo del Romanesco, da cui si differenzia per l'epoca di produzione anticipata (febbraio-aprile) e il colore delle brattee, viola con sfumature verdi. Si coltiva nella piana che dalle pendici del Vesuvio si stende fino a Castellammare e Sant'Antonio Abate: per arginare la riduzione della coltivazione, a favore della cementificazione e della floricoltura, il prodotto è divenuto Presidio Slow Food. Curiosa la tecnica colturale locale: è uso coprire la prima infiorescenza apicale (mamma o mammolella) con coppette di terracotta (pignatte o pignattelle) realizzate a mano da artigiani locali; la protezione dai raggi del sole, assicurata dalla pignatta nella fase di accrescimento del carciofo, lo rende particolarmente tenero e chiaro. Il carciofo arrostito nella brace è il piatto simbolo del lunedì di Pasquetta, condito con sale, pepe, prezzemolo, aglietto fresco e un filo di olio e consumato in abbinamento agli insaccati della tradizione contadina.
Altri Presidi Slow Food: il carciofo di Acerra “La Mammarella” e il carciofo bianco di Pertosa, ambedue in terra campana.
Ode al carciofo
di Pablo Neruda
Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero, ispida edificò una piccola cupola, si mantenne all’asciutto sotto le sue squame, vicino a lui i vegetali impazziti si arricciarono, divennero viticci, infiorescenze commoventi rizomi; sotterranea dormì la carota dai baffi rossi, la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino, la verza si mise a provar gonne, l’origano a profumare il mondo, e il dolce carciofo lì nell’orto vestito da guerriero, brunito come bomba a mano, orgoglioso, e un bel giorno, a ranghi serrati, in grandi canestri di vimini, marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno: la milizia. Nei filari mai fu così marziale come al mercato, gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi, file compatte, voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade, ma allora arriva Maria col suo paniere, sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina, l’osserva contro luce come se fosse un uovo, lo compra, lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe, con un cavolo e una bottiglia di aceto finché, entrando in cucina, lo tuffa nella pentola. Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo, poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta del suo cuore verde.