Impalpabile, lieve, candida come lo zucchero a velo. O, al contrario, pesante, acquosa, grigiastra come una coperta sporca: la neve, in dicembre, scende (o dovrebbe farlo) seguendo uno spettacolare copione, che affascina, almeno di primo acchitto, grandi e piccini. Se la città non è certo la cornice migliore, e più degna, per ospitarlo - e in effetti l'evento si verifica con rarità - la montagna ne è viceversa la culla ideale. Non solo dal punto di vista scenografico - volete mettere un abete imbiancato rispetto a un'automobile sepolta e inutilizzabile? - ma anche perché la neve serve alle piante e non è sgradita agli animali, sempre che cada nel momento giusto e nel luogo adatto, per l'appunto la montagna, cioè a quote superiori ai 1.000 m d'altitudine.
Cos'è la neve
In inverno, le correnti fredde, nate nell'Europa settentrionale e orientale e in Siberia, scendono a colmare la depressione caldo-umida nel Mediterraneo centrale. Dall'incontro tra aria molto fredda e aria calda scaturisce la condensazione dell'acqua in goccioline che, ad alta quota, si solidificano in neve perché la temperatura dell'aria è sensibilmente inferiore rispetto alla pianura.
Basti pensare che, ogni 100 m s.l.m. in più, la temperatura si abbassa di 0,5 °C, e perciò, quando in Val Padana siamo a zero gradi, a Madonna di Campiglio (1.500 m d'altitudine), per esempio, si sfiorano gli 8 °C sottozero. La regola è valida a qualunque latitudine, il che spiega come mai ad Acireale con 13 °C si può azzardare il bagno e contemporaneamente sull'Etna (3.260 m s.l.m. circa) si scia a -3 °C. Ovviamente, quanto più caldo è il clima, tanto più bisogna salire in quota per incontrare il manto nevoso.
L'acerrimo nemico della bianca coltre è il sole che, con i suoi raggi, riscalda l'aria che provoca lo scioglimento dei cristalli. Il fenomeno è evidente lungo le pendici montuose a sud e sud-ovest, ove il manto solitamente permane per tempi piuttosto brevi, mentre i versanti esposti a nord ed est risentono di un riscaldamento solare veramente minimo, consentendo una maggiore persistenza nevosa, fino alla trasformazione dei fiocchi in ghiaccio, che durerà sino a primavera inoltrata.
Le piante con gli sci
Trattandosi di un fenomeno assolutamente naturale, è logico che le piante (e gli animali) di montagna siano perfettamente attrezzate per sopravvivere alla neve, a differenza delle specie di pianura o, ancor peggio, mediterranee, assolutamente indifese già a 5°C sopra lo zero.
A partire dagli 800 m s.l.m. sulle Alpi e dai 1.200 m sull'Appennino, le latifoglie vengono progressivamente sostituite dalle aghifoglie, vale a dire abeti, pini, ginepri e larici. Questi ultimi rappresentano la specie maggiormente adattata ai "sottozeri" invernali e alle nevicate perché, unica tra le conifere, si spoglia degli aghi durante l'inverno, cadendo così in un sonno profondo e liberandosi di un peso che, sommato a quello della neve, potrebbe in casi eccezionali spezzarne i rami, peraltro molli e piuttosto elastici. Queste caratteristiche consentono al larice di spingersi, il solo tra gli alberi, più in alto di tutti, impavido e resistente sino a ben 2.600 m s.l.m.
Viceversa, i pini e gli abeti bianchi e rossi possono subire rotture traumatiche dovute al deposito sui rami di cristalli, soprattutto se acquosi, e quindi più pesanti. D'altronde, l'elasticità delle fronde e la ridotta superficie offerta dagli aghi, larghi 1-2 mm, fanno sì che la neve si ammucchi in piccole quantità per poi essere sbalzata al suolo con un minimo refolo di vento o per resilienza del ramo elastico. Naturalmente, a patto che gli alberi non ricoprano un versante esposto a nord o est, o che la temperatura non scenda tanto da ghiacciare immediatamente i fiocchi sugli aghi.
La permanenza delle foglie, seppure aghiformi, avvantaggia abeti e pini dopo una nevicata anticipata (in ottobre-novembre), perché gli strati di terreno più superficiali, non ancora ghiacciati, vengono mantenuti dal manto nevoso a una temperatura prossima allo zero e mai inferiore. Ciò significa che l'acqua contenuta nel suolo non si congela completamente, permettendo alle aghifoglie, nelle giornate soleggiate assai frequenti negli inverni montani, di svolgere una seppur minima funzione fotosintetica.
Al contrario, gli alberi caducifogli svernano in un profondo letargo, proprio come i larici, a differenza dei quali possiedono però un'impalcatura rameale rigida, che mal sopporta le forti nevicate. Ecco perché, con l'eccezione dei nordici ed elasticizzati sorbi, aceri e betulle, le latifoglie non salgono mai in altitudine laddove le precipitazioni nevose sono un evento frequente, rimanendo confinate a quote più basse se il clima è continentale, o localizzandosi in zone dal dolce clima oceanico.
Benefico manto nevoso
La coltre bianca fa dunque le veci di una coperta nei confronti del suolo, mantenendo sotto di sé una temperatura costante di circa 0 °C. Di conseguenza, non solo l'acqua presente nel terreno non si ghiaccia, nemmeno se la temperatura dell'aria scende di 10 °C sottozero, ma non si congelano neppure gli apparati radicali, limitando così i danni invernali alla sola parte aerea delle piante.
Se invece la neve manca, e la temperatura si abbassa di molto sotto lo zero, si possono verificare rotture delle cellule che compongono le radici, a causa del congelamento dell'acqua che contengono. Le conseguenze si faranno sentire in primavera, quando la ripresa vegetativa sarà molto più lenta, o addirittura, nei casi più gravi, non avverrà: infatti, se l'apparato radicale è profondamente danneggiato, l'albero muore.
Non solo gli alberi traggono vantaggi da un manto nevoso uniforme. Ne sono beneficiati anche gli arbusti, i cespugli spoglianti che affidano la loro sopravvivenza alle gemme situate nella parte bassa della pianta, così come numerose erbe perenni. Se la nevicata è abbondante, le gemme verranno anch'esse in buona parte o del tutto ricoperte, godendo perciò di una temperatura "mite" (sempre 0 °C) rispetto a quella dell'aria circostante, ed evitando di venire "bruciate" dai gelidi venti del nord, tramontana e maestrale in testa. Perfettamente conservate, al disgelo saranno in grado di schiudersi subito e di funzionare al meglio per restituire la completa vitalità al cespuglio. Non per niente esiste il cosiddetto limite degli alberi, cioè la quota oltre la quale sopravvivono solo piante di piccole dimensioni, gli arbusti nani, come mirtilli, rododendri e altre ericacee, e le erbe cespitose perenni, entrambi tanto ridotti da venire interamente ricoperti e protetti dalla neve.
Va da sé che, ai primi tepori tardo vernini o primaverili, lo scioglimento delle nevi fornisce immediatamente acqua al terreno e, di conseguenza, alle radici delle piante, la cui pronta ripresa dipende strettamente anche dalla possibilità di soddisfare la lunga "sete" invernale. Alberi, arbusti ed erbe di montagna hanno infatti a disposizione un periodo vegetativo molto ridotto (oltre i 2.000 m d'altitudine solo da giugno ad agosto), e devono perciò "spicciarsi" a compiere il loro ciclo stagionale, tanto più rapido quanto maggiore è l'acqua disponibile.
I fiori che amano la neve
Alcune piante erbacee sono favorite proprio da un bel manto di neve per la propria fioritura: è il caso della rosa di Natale (elleboro), dei bucaneve (Galanthus nivalis), del campanellino (Leucojum vernum), del piè di gallo (Eranthis hyemalis) e del croco (Crocus vernus).
Tutte queste specie regalano la sorpresa di veder spuntare una corolla variamente colorata (bianco-verde, gialla, viola, bianca) dall’interno della candida coltre.
La loro fioritura viene agevolata dal calore che la neve trattiene vicino al terreno, che stimola i bulbi e gli steli dell’elleboro a emettere i boccioli.
Inoltre, la piccola quantità d’acqua che si libera lentamente dal manto nevoso al contatto con il suolo ha la funzione di idratare i bulbi e le radici, migliorando l’andamento fisiologico di queste piante impavide.