Nel 1869 nasceva in Europa il primo ibrido intergenerico creato dall’uomo. L’artefice di questo evento fu John Dominy, capo coltivatore del famoso vivaio Veitch. La pianta era un Paphilopedilum che fu chiamato harrisianum dal nome del medico che spinse Dominy a tentare gli incroci, e a distanza di più di 150 anni è ancora tra le piante più coltivate per la produzione di fiore reciso.
Le piante che diedero origine a questo ibrido erano Paphilopedilum barbatum e P. villosum: la prima venne impiegata come pianta impollinata e il secondo come impollinatore, e il risultato fu eccezionale. I fiori, molto simili a quelli della pianta “madre”, erano più grandi e con colori più brillanti, e le piante avevano preso dal “padre” la vigoria.
Una volta scoperta la possibilità di creare ibridi tra orchidee, i botanici dovettero rivedere tutte le piante scoperte fino ad allora, alla luce del fatto che anche in natura è possibile che avvengano incroci intergenerici (cioè all’interno dello stesso genere tra specie diverse).
Perché creare ibridi di orchidee
Nonostante in natura esistano migliaia di specie d’orchidee, l’arte dell’ibridazione da quel lontano 1869 ha percorso molta strada e ha messo sul mercato una miriade di nuove orchidee. Le motivazioni di tanto accanimento nel ricercare nuovi esemplari sono dovute sostanzialmente a due necessità: la prima è data dalla ricerca di piante più vigorose e dai colori brillanti, con fabbisogno termico intermedio tra i due genitori – e generalmente tutti gli ibridi si comportano così –; l’altra consiste nel cercare di conservare quelle specie che in natura stanno scomparendo – ma in questo caso si sono selezionati dei cloni della stessa specie, incrociandoli poi tra di loro per ottenere un maggior numero d’esemplari e mantenere la specie in purezza.
Fino a questo momento abbiamo parlato di incroci intergenerici o di selezione clonale, ma il bello venne in realtà quando si cercò di incrociare piante appartenenti a generi diversi, come Odontoglossum × Miltonia, oppure Brassavola × Laelia × Cattleya: queste ultime danno origine alle Brassolaeliocattleya che offrono sicuramente i fiori più grandi e vistosi che si conoscano nel mondo delle orchidee.
Comunque, gli ibridi in generale hanno permesso una maggiore diffusione delle orchidee, non solo per la maggior quantità di materiale disponibile sul mercato, ma soprattutto per la creazione di piante meno delicate e di più facile coltivazione. L’esempio riportato sopra, di incrocio tra Odontoglossum e Miltonia, è uno dei più evidenti: infatti, l’ibrido ottenuto è l’Odontonia, il quale presenta un fiore molto simile a quello del primo genere, ma le piante tollerano bene le temperature elevate (caratteristica tipica del secondo genitore), che sarebbero fatali per l’Odontoglossum (in quanto originario dei climi freddi).
L’impollinazione artificiale
In natura l’impollinazione delle orchidee è affidata agli insetti. Questi vengono attratti dalle piante in modi diversi, attraverso i colori o i profumi o le forme. Per esempio, alcune orchidee spontanee italiane presentano un fiore che assomiglia alla femmina di una certa specie di insetto: i maschi di quella specie cercano allora ripetutamente di accoppiarsi con il fiore, e così facendo lo impollinano. Altri fiori sono conformati in modo tale che l’insetto, per raggiungere il nettare, è costretto a passare in uno stretto canale nel quale pendono le sacche polliniche, che sono dotate di un filamento appiccicoso che si attacca al torace dell’insetto per poi distaccarsi quando questo visita un altro fiore.
Nel nostro caso, se vogliamo creare dei nuovi ibridi dobbiamo assumere noi la parte dell’insetto, e la scelta delle piante è fondamentale. Infatti, le capsule contenenti i semi impiegano diversi mesi per maturare, e dovranno poi trascorrere dai cinque ai sette anni prima di vedere fioriti i nuovi esemplari. Quindi le piante genitrici prescelte dovranno essere molto vigorose (soprattutto la “mamma”) per portare a maturazione le capsule, e le caratteristiche che si vogliono fissare nel nuovo ibrido devono essere ben evidenti per poterle riconoscere alla fioritura.
Una volta scelti i genitori, bisogna stabilire quale pianta deve donare il polline e quale deve riceverlo. I pollini si trovano, nella maggior parte dei casi, sulla sommità della struttura centrale del fiore, che si chiama “colonna”, subito sotto l’apice dell’antera.
Le due sacche polliniche sono protette da un cappuccio che va rimosso con un bastoncino. A questo punto si vedono chiaramente le due piccole sfere di colore arancione-giallo: sempre con un bastoncino vanno prelevate. Questa operazione è abbastanza facile, perché le antere presentano un filamento appiccicoso grazie al quale rimangono attaccate al bastoncino. Nel compiere questa operazione si esaminano bene le sacche polliniche, che devono essere esenti da muffe e di un bel colore brillante.
Sempre con lo stesso metodo si asporta il polline dal fiore che deve essere fecondato: lo possiamo eliminare oppure utilizzare per altri incroci. Io consiglio di svolgere il doppio incrocio, cioè di usare il polline di una pianta per incrociarne un’altra e viceversa; questo perché, anche se le piante così ottenute avranno caratteristiche vegetative simili, sicuramente i fiori saranno di colore diverso; e poi, visto che si ha del materiale a disposizione, sarebbe un peccato non utilizzarlo.
Ora bisogna introdurre il polline all’interno della cavità che si trova subito al di sotto delle antere. Tale operazione può risultare un pochino difficoltosa e richiede mano ferma, perché la cavità contiene un liquido vischioso e, appena le antere lo toccano, vi rimangono appiccicate. Quando le antere sono state appoggiate nella cavità, bisogna aspettare qualche secondo prima di ritrarre il bastoncino: c’è il rischio che il liquido femminile non abbia ancora fatto presa, mentre la vischiosità della base delle antere le tiene ancora saldamente attaccate al bastoncino, e nello strappo finale può capitare che le antere cadano a terra anziché rimanere nella cavità femminile. Bisogna essere molto delicati nello svolgimento di questa operazione, onde evitare di produrre con la punta del bastoncino delle ferite che costituirebbero sicuramente un facile ingresso per agenti patogeni.
Si procede poi alla cartellinatura della pianta. I dati indispensabili sono: il nome delle due specie madri e la data in cui è avvenuta la fecondazione. Io consiglio di tenere in un raccoglitore le foto delle due piante madri, annotandovi a fianco tutte le caratteristiche (altezza, dimensione delle foglie, grandezza e colore dei fiori, esigenze idriche e temperatura di coltivazione). Questa precauzione è utilissima perché, visto il notevole arco di tempo che dovrà passare prima di veder fiorite le nostre nuove piantine, le piante madri potrebbero essere morte o non più nelle condizioni in cui erano quando le abbiamo impiegate per creare l’incrocio. Inoltre, confrontando i dati relativi a più incroci, si riesce a capire quali sono i caratteri più facilmente trasmissibili.
Se l’operazione di impollinazione si è svolta correttamente, il fiore nel giro di 24 ore appassirà e comincerà a svilupparsi la capsula. I tempi di maturazione possono variare da un paio di mesi fino ad un anno. Il momento della raccolta è dato dal viraggio del colore, ossia quando la capsula comincia a perdere il colore verde brillante ma prima che essa si apra spontaneamente.
Nonostante tutti questi accorgimenti, una buona dose di pazienza e tanta fortuna, non è comunque detto che i risultati siano positivi: quindi, se ci si vuole cimentare nella produzione di ibridi per diletto possiamo tranquillamente farlo per il gusto di provarci. Quando invece si parla di moltiplicazione su larga scala, è meglio lasciar fare a persone qualificate.
(di Roberto Casadei)