Sono trascorse circa 2 settimane dalla spaventosa alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna, con la sua scia di morte e distruzione, che ha riguardato anche le piante nel giardino e negli orti e frutteti, sia di tipo familiare che degli agricoltori professionisti.
Nel precedente articolo dedicato all’alluvione e a cosa fare per salvare le piante di famiglia abbiamo illustrato, a giardino ancora spesso invaso dall’acqua, un possibile scenario di recupero o meno del patrimonio vegetale.
Ora che l’acqua si è quasi completamente ritirata e il giardino è di nuovo agibile, procediamo man mano nell’esame della situazione con nuovi consigli utili per aiutare alberi e arbusti a riprendersi: ve ne parla ancora il Paesaggista Roberto Malagoli, progettista e curatore del verde di Studio Ma.Ma, Esperto di area Professionale e Qualifica per il rilascio delle attestazioni ai giardinieri per la Regione Emilia-Romagna (tel. 335 6922366, Facebook, www.studio-mama.it).
A distanza di due settimane dall’alluvione, si nota qualche segnale positivo?
Assolutamente sì! Per esempio, l’ipotesi che tutta la pedofauna (NdR Gli animaletti minuscoli che vivono nel terreno, come lombrichi, porcellini di terra, millepiedi ecc.) fosse morta è stata smentita, almeno per quei terreni che non sono rimasti per 15 giorni sott’acqua. Abbiamo trovato lombrichi ancora vivi rifugiatisi sotto i sottovasi, così come lucertole catalettiche che è bastato sciacquare dal fango che le “intonacava” per fare ritornare a correre. E poi formiche sopravvissute in misteriose sacche d’aria sotterranee, e perfino rosure (NdR Fori tondi sul terreno, con monticello di terra accumulato intorno) del suolo che segnalano la presenza di una forma di vita nella profondità della terra.
Non hanno invece avuto scampo le api domestiche, d’allevamento, che erano tutte nelle arnie durante la notte, quando i corsi d’acqua sono esondati: questa è una gravissima ripercussione anche nell’ottica dell’impollinazione, che sarà decisamente carente per il resto della stagione.
Il limo in giardino quanto ha inciso sulle piante?
Come avevo previsto, laddove si è depositato 1 cm di limo, seccandosi al sole si frattura e permette già alla terra sottostante di respirare. Da 1 a pochi centimetri di limo, il consiglio rimane quello di staccarlo con il badile e una carriola per rimuoverlo, e i danni alla componente legnosa saranno abbastanza limitati; al limite si può anche interrare mescolando il limo al terreno con una buona lavorazione meccanica o manuale (almeno 30 cm), solo dove però non abbiamo gli apparati radicali di alberi e arbusti, mantenendovi a debita distanza dai fusti (vedi anche articolo precedente).
Diverso è il discorso dei terreni con oltre 10 cm di crosta, dove se non facessimo niente, resisteranno solo gli alberi ripariali, come pioppi, ontani e salici (o eventuali Taxodium, cioè cipressi calvi). Tutti questi alberi e arbusti adattati a vivere nel terreno umido hanno anche la capacità di produrre nuove radici nel nuovo strato di limo che si è appoggiato sul terreno: in pratica inizialmente avverrà un “raddoppiamento” dell’apparato radicale, e nel tempo il nuovo sostituirà il precedente, ormai troppo profondo per assicurare gli indispensabili rapporti con l’atmosfera.
Una difficile sopravvivenza avranno invece le altre specie autoctone ma meno adatte alle zone soggette all’allagamento come querce, aceri, frassini e carpini.
Potranno morire, anche se ci metteranno mesi, le specie esotiche, le conifere, le piante da frutto ecc., che provengono da suoli per lo più ghiaiosi e comunque sempre ben drenati.
In queste condizioni, fra l’altro, è difficile che l’entomofauna del terreno sia sopravvissuta, come pure tutta la componente fungina responsabile delle micorrize tanto benefiche (NdR Aggiungiamo, anche i tartufi: la Romagna è terra di tartufo bianco pregiato, tartufo estivo o scorzone e bianchetto; vedi approfondimento in fondo a questo articolo).
I consigli rimangono gli stessi già forniti nello scorso articolo: asportare il limo se è più spesso di 4-5 cm; interrarlo se è di poco spessore; arieggiare il più possibile il terreno; lavare bene le foglie e la corteccia delle piante, anche per evitare che, con i raggi del sole, la temperatura del vegetale si alzi troppo perché gli stomi (NdR Le aperture che consentono alla pianta di effettuare la fotosintesi clorofilliana e di respirare) sono chiusi dal limo, e l’intera pianta si ustioni sotto il guscio limoso; ed eventuale soffiatura di aria nel suolo con i compressori illustrati nell’articolo precedente.
Ci sono speranze di salvarne almeno qualcuna, soprattutto gli esemplari di pregio?
Per la mia esperienza, sì, è possibile. Nel gennaio 2014 si verificò una disastrosa alluvione a Bomporto (Mo) per la rottura dell’argine del Secchia. È vero che le condizioni furono diverse (l’acqua non conteneva terra di frana, come invece nel caso della Romagna, e lo strato di limo fu di pochissimi centimetri), ma in quel caso morirono solo piante alloctone, come i noci e i cedri (NdR Conifere, es. Cedrus libani).
Dunque, in questo caso per le piante di pregio – come Acer palmatum, melograno, corbezzoli, leccio, giuggiolo, Cornus florida, Conifere nane, Taxus baccata e acidofile pregiate – consiglio nuovamente l’espianto con ricovero presso un vivaio e la successiva piantagione, al ripristino delle condizioni favorevoli in autunno.
La Romagna è anche terra di olivi, molti dei quali anche secolari…
E molti dei quali sono stati parzialmente scalzati dalla furia dell’acqua, quindi inclinati, quasi espiantati, con parte delle radici esposte all’aria. Ma in questo caso il limo è benefico, perché riproduce quella pratica chiamata “inzaffardatura” che altro non è se non immersione delle radici in acqua, argilla e stallatico. Dunque, in questo caso non lavate le radici e salvate le piante. Come?
Agite così: potate la chioma in proporzione al danno subito dalle radici, poi espiantate l’olivo e tagliate le radici danneggiate e quelle in esubero alla zolla più grande che riuscite a spostare con i mezzi a disposizione, disinfettate tutti i tagli (rami e radici) con sali di rame disciolti in olio di lino cotto, e ripiantate immediatamente l’esemplare in un suolo ammendato con sabbia silicea, miscela di lapillo vulcanico in diverse granulometrie, zeoliti e sostanza organica matura.
È la procedura che si adotta comunemente con gli olivi provenienti dalla Spagna (anche secolari) che poi vengono spediti in Italia e trovano alloggio nei nostri giardini, in genere ambientandosi senza problemi e riprendendo velocemente a crescere. Altrettanto possono fare gli olivi romagnoli colpiti dall’alluvione, senza necessità di ricorrere alla motosega per vendere la legna…
Anni fa mi è stato chiesto di espiantare 16 tigli di 45 anni, alti 12 m, perché nello spazio dov’erano doveva essere ampliata una fabbrica. Li espiantai con tutti i crismi e ora, tutti e 16 ancora vivi, formano un ovale molto scenografico in un altro terreno del proprietario, contro ogni aspettativa di chi la riteneva una pratica senza speranza.
Quindi, nel caso di olivi, fichi, melograni, giuggioli, agrumi e altre piante “esotiche” di pregio, la pratica dell’espianto e ripiantagione funziona perfettamente, e io stesso sono disponibile ad aiutarvi a eseguirla nel modo corretto. Non la consiglio invece per alberi da frutto “nostrani”, come peschi, albicocchi o meli, perché non sarebbe economicamente accettabile e soprattutto, mentre nei casi precedenti (trattandosi di piante sempreverdi e/o particolarmente resilienti) il periodo non è troppo sbagliato, per le piante a foglia caduca invece sarebbe inutile.
Se le piante da frutto comuni dovessero sopravvivere, per es. dove la sommersione è stata limitata, cosa ci possiamo aspettare come evoluzione?
Potrebbero verificarsi due condizioni opposte, che si manifesteranno però nel 2024.
La prima consiste in una produzione scarsissima o assente, perché gli alberi da frutto hanno l’induzione florigena (NdR Il differenziamento delle gemme da fiore) in estate: se non stanno bene, non produrranno gemme da fiore ma solo da foglia, e la prossima estate non si avranno frutti.
La seconda è l’esatto contrario: quando una pianta sta veramente molto male, differenzia una quantità enorme di gemme da frutto proprio per assicurarsi una progenie prima di morire. Quindi non sorprendetevi se qualche fruttifero nella primavera prossima facesse una fioritura spettacolare seguita da una produzione enorme di frutti, per poi seccarsi ad agosto o poco più in là.
Tenete presente che le ferite dovute a oggetti trascinati nell’acqua potrebbero essere tantissime, e da ciascuna di esse può penetrare qualche patogeno fungino, come gli agenti della tracheomicosi che è una malattia “silenziosa” perché lavora nei vasi xilematici interni degli alberi (NdR Il sistema che porta acqua e minerali alle foglie che li utilizzano per la fotosintesi clorofilliana): la pianta muore all’improvviso. Da questo punto di vista, andrebbe eseguito immediatamente un intervento preventivo con sali di rame e successivamente potrebbe essere utile un trattamento radicale con anticrittogamici sistemici per intervenire su infezioni già in atto.
Sulle piante sopravvissute possono evidenziarsi altri problemi?
Purtroppo sì: una vicenda così traumatica come l’asfissia prolungata ha indebolito le piante, che si troveranno più esposte proprio all’attacco di malattie e parassiti animali. Le piante sane di solito non vengono colpite perché i loro tessuti costituiscono un ambiente respingente il patogeno: in questo caso invece le porte saranno spalancate, per es. ai rodilegno (Cossus cossus e Zeuzera pyrina), le cui femmine adulte (farfalle) sentono “l’odore” delle piante indebolite – quelle che per sopravvivere a qualche fisiopatia hanno dovuto rinunciare a produrre per esempio le tossine specifiche contro i parassiti – e le scelgono per deporvi le uova. In natura, sono perfino “utili” perché selezionano i vegetali inadatti a sopravvivere e ne velocizzano la scomparsa. Una pianta in buone condizioni, poi, scoraggia lo sviluppo delle larve, per cui pochi sono gli adulti che sfarfallano, mentre un esemplare indebolito permette lo sviluppo di tutte le uova, con un aumento esponenziale, nel 2024, dell’infestazione. Dovremo quindi aspettarci un’ulteriore dipartita, nel prossimo anno, di vegetali colpiti da insetti, funghi, batteri e virus.
Sconsiglio però un’erogazione indiscriminata di fitofarmaci a scopo preventivo: al massimo un intervento con rame in caso di evidenti ferite su tronco, rami o foglie, controllando l’insorgenza delle parassitosi, ponendovi rimedio solo dopo averne valutato la soglia d’intervento (costi e benefici per esempio). In compenso raccomando gli interventi di rimozione del limo, lavaggio e arieggiatura del suolo. E consiglio di osservare l’evoluzione nel tempo, decidendo di volta in volta come procedere.
Di nuovo, un consiglio finale?
Come ho già detto nell’articolo precedente, non fatevi prendere dallo sconforto: le piante a volte ci sorprendono, perché hanno molte più risorse di quante ne immaginiamo. Soprattutto, prima di abbattere un albero o un arbusto, aspettate e osservate come si evolvono, da qui fino alla tarda estate o inizio autunno. Non mettete assolutamente mano alla motosega: ora non ce n’è bisogno, mentre c’è bisogno di pazienza e attesa, ed eventualmente opere di espianto e ripiantagione.
Vale ancora il consiglio di tirarvi su il morale recandovi in un vivaio o garden center della vostra zona per acquistare qualche pianta da fiore viva e vitale, in buona salute e colorata da mettere in vaso, per darvi la sicurezza che la ripresa è possibile!
Questo è il secondo di una serie di articoli che intende informarvi, man mano che il tempo passerà, su cosa fare per avere di nuovo un bel giardino dopo l’alluvione in Emilia-Romagna. Il nostro esperto Roberto Malagoli vi racconta il da farsi, settimana dopo settimana: non perdetevelo!
Continuate a seguirci! Stay tuned!
Riguardo alle micorrize e ai tartufi, abbiamo interpellato Alessandra Zambonelli, professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari, Università di Bologna e presidentessa dell’Unione Micologica Italiana.
È possibile che il micelio fungino che produce tartufi sia sopravvissuto?
Premetto che non ci sono mai state sperimentazioni specifiche sull’effetto di alluvioni sulle tartufaie naturali e coltivate, per cui le mie risposte derivano unicamente dalla mia esperienza empirica sul tartufo.
Abbiamo l’esempio del Bosco Panfilia che periodicamente viene sommerso dalle acque con un deposito di limo che produce ottimi tartufi bianchi, ma le acque – a detta dei tartufai locali – devono poi ritirarsi velocemente, se no la produzione viene danneggiata a causa dei danni recati dalla prolungata asfissia al micelio e alle radici delle piante simbionti.
Se il micelio riesce a sopravvivere e se poi si mantiene un buon livello di umidità del suolo durante l’estate, ci potrebbe essere un’ottima produzione.
Per le tartufaie coltivate è difficile dare suggerimenti, magari una lavorazione superficiale per rompere la crosta di limo può giovare.