Si adatta a condizioni difficili, offre frutti colorati e polposi, dà un originale tocco di rusticità all’orto: è il fico d’India, Opuntia ficus-indica, ormai presente in tutta Italia, soprattutto al Sud.
Appartiene alla grande famiglia delle Cactaceae (che annovera forme quanto mai variabili per caratteristiche) e, grazie alla sua elevata adattabilità, si è diffuso, a partire dall’America centrale e meridionale, in Sud Africa e nel Mediterraneo. Come per altre specie e per molte “tecnologie” successive all’anno Mille, si è ritenuto che arrivasse dall’Asia, donde il nome improprio (indica significa appunto “dell’India”). In effetti, i primi a conoscere e utilizzare l’Opuntia ficus-indica furono i remoti ascendenti degli Aztechi. Più probabile, quindi, che la pianta sia stata portata dal Messico attorno al 1560.
Si racconta che il fico d’India, definito nel passato “pane delle regioni povere”, sia stato introdotto solennemente alla corte di Vittorio Emanuele III dal Marchese delle Torrazze, del centro etneo di Randazzo (CT); è stato poi celebrato da Matilde Serao, Carlo Levi e Vitaliano Brancati. Proprio in Sicilia esso è oggetto di coltura specializzata, specie nell’agro catanese di San Cono (sua vera e propria “capitale”), nel versante nord-occidentale dell’Etna e nell’area di Santa Margherita Belice (AG).
Fico d'India, pianta robusta, facile da coltivare
La pianta si può spingere in altezza fino ai 3-5 m; il fusto è costituito da cladodi (ovvero le cosiddette “pale”, cioè fusti modificati per la tesaurizzazione dell’acqua) succulenti in grado di compiere la fotosintesi clorofilliana, da piccole foglie caduche e numerose spine (anch’esse foglie, modificate), molto piccole, intorno alle gemme. I fiori gialli, a coppa, compaiono in primavera-estate. I cladodi basali con il tempo tendono a lignificare sino a formare un tronco ben definito. Questa cactacea presenta comunque un’elevata variabilità nelle forme, nelle dimensioni e nel colore dei frutti.
La coltivazione richiede un terreno molto drenante e roccioso e, se allevata in vaso, la terra deve essere ben concimata e mista a sabbia grossolana; l’esposizione deve essere in pieno sole; le annaffiature, regolari in estate, vanno completamente sospese in inverno. I suoli idonei alla coltura hanno valori di pH che oscillano tra 5 e 7,5 e una profondità di circa 20-40 cm. Le piante sopportano anche il freddo, ma in inverno possono resistere all’aperto a temperature non inferiori ai 7 °C. La moltiplicazione avviene sia per seme, usando un miscuglio di terra e sabbia umida, o più semplicemente staccando un articolo (cladodo) o tagliando la cima di una forma tubolare (cilindrica), da lasciar asciugare per almeno una settimana e da appoggiare su una base di sabbia pura.
In alcune zone del Meridione è diffusa la coltivazione dei “bastardoni”, frutti tardivi ottenuti da fiori autunnali, tramite la tecnica della “scozzolatura”, che consiste nel far cadere dalla pianta i fiori primaverili. In questo modo si ottiene una seconda fioritura che darà frutti più grossi, di qualità migliore e più resistenti. Tipica pianta aridoresistente, qualora la produzione principale sia basata sui “bastardoni”, richiede però che in ottobre-novembre si verifichi un andamento climatico che permetta la maturazione di tali frutti. I frutti vengono raccolti a più riprese. In coltura irrigua si possono ottenere produzioni di 250-300 quintali a ettaro e un impianto specializzato ha una durata di circa 30-35 anni.
Tra le malattie, si segnalano il cancro gommoso (Dothiorella) e la ruggine scabbiosa (Phillosticta opuntiae), ma l’Opuntia ficus-indica può essere danneggiata anche dalla mosca della frutta (Ceratitis capitata).
I frutti squisiti
Caratteristico è il frutto, una bacca carnosa estremamente variabile nella forma, nelle dimensioni, nel colore, che va dall’arancio fino al violetto. In Italia si sono affermate tre principali varietà: gialla, bianca e rossa (o sanguigna), mentre la varietà denominata “apirena”, caratterizzata da un maggior numero di semi abortiti (e quindi quasi priva di semi), è meno presente. I semi sono numerosi (da circa 100 a oltre 400 per frutto), di forma discoidale e di diametro pari a circa 3-4 mm. Sono frequenti le anomalie dei frutti. In genere vengono commercializzate varietà cosiddette “prive di spine” (a cui corrispondono cladodi con corte spinule non visibili, ma apprezzabili al tatto…), delle quali comunque non bisogna fidarsi troppo: meglio maneggiare i frutti avvolgendoli in uno strofinaccio o un foglio di carta assorbente, sbucciandoli poi con coltello e forchetta.
Il fico d’India, per la sua composizione organolettica, è consigliato come integratore nella dieta mediterranea. In Sicilia le donne si tramandano l’uso dei “fiori di fico d’India” per le proprietà benefiche e terapeutiche: l’infuso dei fiori raccolti ed essiccati ha infatti un effetto depurativo, con una dolce e blanda azione diuretica e rilassante delle vie escretrici renali. Sempre in Sicilia, una “pala”, spaccata in mezzo e infornata, ancora calda veniva usata per curare i casi di angina, tonsillite e febbri intermittenti.
Attualmente viene utilizzato in svariati settori e con l’impiego delle diverse parti della pianta. Nell’ambito agroalimentare, oltre al consumo fresco dei frutti, si producono marmellate, bevande alcoliche e non, sciroppi, canditi, farine, oli estratti dai semi. In Messico è diffuso l’uso di consumare come verdura i giovani cladodi privati delle spine. Fresco è destinato all’alimentazione del bestiame, mentre diverse parti della pianta prendono la strada dell’industria (per coloranti, mucillagini, concimi organici, biogas), del settore farmaceutico (cura del diabete, dell’obesità, delle affezioni infiammatorie ecc.) e della cosmesi.
(di Michele Faro, Vivai Piante Faro)