Il larice è una delle poche piante che rimane confinata in montagna, a differenza di pini, abeti, betulle e faggi che capita di frequente di vedere anche in pianura. Infatti è così ben adattato al clima di montagna, da non sopravvivere in luoghi più miti: il suo regno ideale è fra gli 800 e i 1800 m di quota sulle Alpi.
Se in estate si fa quasi fatica a distinguerlo tra le altre Conifere, in autunno l’albero dà spettacolo: il verde scuro dei pini e quello ancora più cupo dei pecci viene incendiato di oro liquido, fremente al minimo sospiro di vento per ricadere in un'asciutta pioggia di mille bagliori dorati. Non si tratta di un qualche miracolo biblico, bensì di un fenomeno assolutamente naturale: è la meravigliosa quinta creata dai larici, aghifoglie anomale nel panorama botanico, proprio perché, a differenza dei cugini pini e abeti, con la brutta stagione si denudano del tutto. Ma prima di spogliarsi, annunciano all'intero mondo alpino l'imminente perdita ammantandosi di un'intensa tonalità giallo dorata, per la gioia dei nostri occhi.
Unica conifera italiana che si spoglia, il larice non per nulla è stato chiamato Larix decidua, cioè "caduco", in riferimento agli aghi. La loro assenza invernale consente alla pianta di offrire una minore superficie d'appoggio ai fiocchi di neve, che si accumula in una minima quantità destinata a cadere presto, perché i rami sono sottili ed elastici.
La mancanza degli aghi, quindi, lo favorisce nella sopravvivenza invernale, insieme con la capacità di ridurre a zero la richiesta di acqua dal terreno, contrariamente a pini e abeti. Ciò significa che il larice non necessita di liquido proprio nel periodo in cui l'acqua nel suolo è ghiacciata, e quindi indisponibile per i vegetali.
Strategie particolari messe in atto per spingersi laddove nessun albero è in grado di resistere, arrampicato sui fianchi della montagna più impervia sino alla fantastica quota di 2.600 m s.l.m., rimpicciolito, contorto e, in genere, solitario abitante delle vette. Meglio di lui non fa nessun'altra pianta arborea, visto che il diretto inseguitore, il pino cembro, si ferma a "soli" 2.100 m di quota.
Ma il larice è bello anche in primavera, quando “fiorisce” in giallo (i fiori maschili) e in rosso (quelli femminili) e poi emette i nuovi, teneri aghi, di un verde chiaro, tenue e giallognolo che, al culmine dell'estate, diviene verde pisello, non un grammo di colore in più, quasi che gli aghi sapessero di dover infine cadere, destino che li spinge a non profondere troppe energie nell'ammantarsi di verde. E in inverno, quando la sagoma svettante rimane nuda, sarà apprezzabile anche la corteccia, marrone, rugosa, sfaldata e fessurata come si addice ad alberi della sua taglia.
Questi aghi gentili, che non pungono nemmeno nel cuore dell’estate né creano un’ombra fitta e inquietante, quando poi cadono, sottili e morbidi come sono, si decompongono assai rapidamente, trasformandosi nel terreno in soffice e benefico humus.