Soprattutto nelle campagne della Pianura Padana, ma anche lungo le coline piemontesi piuttosto che marchigiane o nell’entroterra calabrese o siciliano sono ancora relativamente frequenti le piante di gelso (Morus alba, gelso bianco, M. nigra, gelso nero), alberi generosi che ancora oggi sono in grado di regalare un abbondante raccolto di dolcissime more, da mangiare così come sono, appena raccolte dai rami, o da utilizzare per macedonie, marmellate, gelati o granite (come usa nel Sud).
Sono gloriosi superstiti di un’epoca ormai lontana, in cui venivano piantati e curati per la versatilità e la generosità nel prestarsi a diversi utilizzi: disposti in filari segnavano il confine di proprietà o l’ingresso alla casa, nel cortile fornivano ombra estiva, il legno si impiegava per confezionare utensili o da ardere nel caminetto, le foglie fungevano da strame per il bestiame e da alimento per il baco da seta, dei frutti si è già detto.
A guardarli bene, però, per la maggior parte hanno un aspetto piuttosto curioso: il tronco è ormai possente, dato che spesso risalgono ad almeno una settantina d’anni fa, ma si interrompe a un’altezza di 2-3 m da terra allargandosi in una specie di manicotto a forma di corona, dal quale si dipartono numerosi rami anche molto lunghi… Non è sicuramente un portamento normale per un albero!
La causa risiede nel lontano, principale e fondamentale impiego che veniva fatto di questa pianta: le foglie costituivano infatti l’unico alimento per le larve del baco da seta (Bombix mori), un tipo di allevamento che dall’Unità d’Italia fino al secondo Dopoguerra ha sostentato la maggior parte delle famiglie contadine italiane.
Bastava avere un magazzino luminoso, alcuni graticci, le uova del baco e, appunto, molte piante di gelso: l’allevamento si esauriva nell’arco di due mesi primaverili, durante i quali l’unico impegno consisteva nel dare da mangiare alle larve, mattina e sera, un’ingente quantità di foglie di gelso.
Logico che, per poterci arrivare con una certa comodità (se ne occupavano i bambini dai 5 anni in su e gli anziani malfermi sulle gambe e spesso ricurvi dopo una vita di lavoro e di stenti), i rami non dovessero svettare verso l’alto: allora, ogni autunno l’albero veniva capitozzato, cioè si tagliava il tronco con tutti i rami a un’altezza di 2 m circa, per far sì che bastasse una corta scala per recuperare le foglie.
Dopo parecchi decenni di questa “potatura” (che oggi è da evitare perché squilibra e impoverisce l’albero) le piante hanno formato quella specie di strano “turbante” che ancora oggi vediamo.